Non aveva dormito bene quella notte.
Sarà stata la solita agitazione che lo prendeva quando doveva andare in viaggio o la cena della sera precedente, a base di pietanze molto pesanti.
Ad un certo punto Giorgio si era svegliato tutto sudato nel cuore della notte realizzando che aveva sognato di quando era bambino e si addormentava vicino alla sua mamma nel lettone assaporando, da sotto il piumone, il tepore di chi lo aveva messo al mondo, nutrito e protetto.
Riaddormentatosi, non era più riuscito a godere di un sonno tranquillo, quasi come se l’aver interrotto quel sogno gli avesse portato via la serenità necessaria a godersi il riposo.
“Alle 19 in punto ti passo a prendere in stazione” gli aveva telefonato Gianna quella mattina prima che prendesse l’aereo per tornare nella sua Trieste. Avevano organizzato una cena apposta per lui, il presidente ed i notabili circolo cittadino, per celebrare l’onore di riavere per un po’ in città una tale personalità che faceva lustro a tutta la cittadinanza.
Ed in effetti erano passati tanti anni da quando aveva lasciato la famiglia e gli amici per tuffarsi nel mondo della scienza, di cui era diventato una delle più importanti autorità al mondo: ora la sua città esigeva un piccolo risarcimento.
Gianna lo aveva sempre seguito, fin dai tempi del liceo, sacrificando, per stargli vicino, i suoi studi e le sue passioni.
Era rientrata in città qualche giorno prima di lui, per salutare i parenti che non vedeva da tempo, e quella sera era contenta di accompagnarlo alla cena di gala in suo onore e di sedere al suo fianco, lui in smoking e lei in uno splendido e luminoso abito da sera.
La zona della stazione, come dappertutto, non era una zona molto raccomandabile, frequentata da barboni, alcolizzati ed accattoni che si scaldavano nell’atrio e girovagavano tra bottiglie rovesciate e coperte buttate a terra per la notte.
Uscendo sui gradini davanti all’ingresso principale, mentre Gianna suonava il clacson per attirare la sua attenzione essendo troppo pigra per cercare un parcheggio, Giorgio inciampò in un fagotto di coperte, troppo rigido per essere solo un ammasso di panni.
Giorgio si chinò e incontrò gli occhi di chi si era avvolto in quei panni e stava lì, steso sui gradini della stazione, la sera di Natale.
Vide in quegli occhi, in un attimo, tante cose: la mensa dei poveri dove si litiga per un panino, i bagni puzzolenti della stazione, il disprezzo della gente “perbene” che in quegli occhi si specchia, la fame, la malattia, il buio.
Gianna suonò ancora una volta nervosamente il clacson, Giorgio salì in macchina.
La cena sembrava infinita, con numerose portate che ne annunciavano e, tra l’una e l’altra un discorso noioso, di convenienza.
Giorgio e Gianna sedevano a fianco al sindaco ed ai notabili della città al tavolo d’onore, leggermente più in alto degli altri ed al centro della magnifica e sfavillante sala. I discorsi erano tutto fuorchè interessanti, tra una contessa che rimpiangeva gli antichi fasti di una città ormai in agonia e un rampante manager che riteneva, a torto o a ragione, la sua azienda e quindi se stesso, al centro del mondo.
Gianna era felice, si trovava a suo agio in tutta quella mondanità.
Giorgio uscì, con la scusa di una sigaretta a prendere una boccata d’aria.
Aveva un forte mal di testa, le tempie pulsavano e, insieme ad una nausea incipiente, sentiva che la consapevolezza si andava indebolendo.
Sapeva si dover rientrare in teatro, ma non sapeva dove il teatro si trovasse e cominciò a vagare senza riconoscere i luoghi che incontrava.
Si era perso e aveva smarrito la cognizione di dove si trovasse e per quale ragione fosse lì. Vedeva il suo smoking e non capiva perché lo avesse indossato.
Dopo un po’, si ritrovò sugli scalini di un teatro secondario, poco in uso, tanto da sembrare quasi abbandonato.
Era buio. Non un’ anima viva in giro. Di lontano, solo le luci del Natale.
Giorgio sentiva il freddo pungente della serata penetrargli nelle ossa.
Il cielo si era improvvisamente tinto di quel bianco che solitamente preannuncia la neve e riflette, smorzandole, le luci scintillanti della città.
Si distese a terra, incapace di reggersi sulle gambe sempre più deboli. Chiuse gli occhi, aveva i brividi.
Doveva aver dormito per qualche minuto quando si accorse che il freddo era passato e che la sua testa non poggiava più sulla dura pietra degli scalini di quel teatro dismesso.
Una mano la teneva sollevata e aveva avvolto il suo corpo in una calda coperta. Aprì gli occhi. Un fiocco di neve brillò nella luce di un lampione poco lontano. Incrociò di nuovo quegli occhi, che aveva visto sulla scalinata della stazione: “Dormi mio piccolo Giorgio, che sei stanco, dormi” dissero quegli occhi.
“Buon Natale, mamma” disse Giorgio, e si abbandonò ad un sonno sereno e profondo.