Questa domenica vi propongo una ricetta particolare, introdotta da un lungo ma bel racconto, che ha il sapore di Trieste, scritto qualche tempo fa da Lily-Amber Laila Wadia*, indiana, approdata a Trieste.
di Lily-Amber Laila Wadia
Oggi è uno dei giorni più tristi da quando mi trovo a Trieste. No, non è morto nessuno. È successo di peggio: il negozio Gerbini ha chiuso i battenti.
Come posso spiegarvi cos’era per me questo negozio? Non una semplice bottega stretta e lunga straripante di alimenti esotici, in fondo a Via Battisti, non un salumificio dove non ti sentivi mai rispondere “volentieri” (sinonimo triestino per “no, mi dispiace ma non ce l’abbiamo”), ma un luogo magico dove si poteva trovare di tutto, dal ricercatissimo jamon, prosciutto crudo iberico tagliato a mano, al rinomato formaggio di Pago, e anche un indirizzo sicuro per fare scorte di halwa turco o sciroppo d’acero canadese in cui affogare gustose pancakes. Era il mio rifugio. Il rifugio della mia anima quando essa veniva sopraffatta dal mal di patria, quando il mio corpo reclamava i sapori della mia India natia, quando le mie papille gustative imploravano una tregua dai carboidrati raffinati e dagli oli extra vergini spremuti a freddo.
Mio marito era geloso.
Non riusciva a capire il perché delle mie incursioni mensili al negozio Gerbini.
“Quando torni?” indagava appena nominavo la mia meta.
“Non lo so.”
“Come non lo sai? Cosa devi andare a comperare?”
“Niente.”
“Niente? Allora che ci vai a fare?”
Non riuscii mai a spiegarglielo – le ragioni di un cuore nostalgico spesso non sono in sintonia con la lingua – e, come ogni buon maschio latino, lui allora ci mise di mezzo le corna. Era sicuro che nutrissi una simpatia per uno dei commessi del negozio Gerbini o, forse, per l’anziano proprietario stesso. Altrimenti che senso avrebbe avuto affrontare la Bora dopo una lunga giornata di lavoro all’Università per non comperare niente?
A zonzo per la città d’inverno, cerco rifugio dal vento e dal freddo nei grandi magazzini di tanto in tanto. Quando non mi sembra un crimine pagare cinque euro per un gingerino in piedi, mi tuffo in un bar. Ma al negozio Gerbini non ci capito per caso. Ci vado di proposito. È un ritorno, un ritrovare il grembo di mia nonna – caldo, soffice, impregnato del profumo di chiodi di garofano, di zenzero, mango, peperoncini, lavanda e cannella. È il mio porticciolo d’attracco in un mare agitato, un tappeto volante che mi trasporta alla mia casa lontana diecimila chilometri, ad una frazione del costo del biglietto aereo, una clinica di ringiovanimento, che mi fa ridiventare una bambina felice che corre a piedi nudi in un giardino tropicale straripante di ibisco, di casuarine, di frangipani e di rose del Madras. Durante l’intervallo della mia sosta rivedo il volto dolce e disteso della mamma che inforna le cosce di pollo tandoori, di mio padre che tuffa le dita in un piatto di curry fumante, del mio fratellino che supplica che gli venga lasciata la ciotola dell’impasto per il budino alle mandorle da leccare con le dita.
Sento dire che l’occidente è sempre più depresso, che il consumo di calmanti è alle stelle, il valium è più venduto dei preservativi. E a volte penso che forse è solo perché tanta gente non ha ancora scoperto il trucco. I momenti bui si possono superare olfattivamente. Bisogna andare alla ricerca dei sapori del passato – di un periodo spensierato che spesso corrisponde solo all’infanzia. Gerbini è la mia panacea e con il tempo ho imparato quale reparto del negozio mi può guarire in quel preciso momento. La nostalgia mi vede rannicchiata nell’angolo delle spezie ad inebriarmi d’India, la stanchezza fisica viene alleviata dalla vista delle coloratissime scatole di impasto per torte americane, facilissime da preparare e con il valore aggiunto che nessuno sospetta che non siano fatte in casa, la stanchezza mentale necessita di distrazioni e perciò un vagare tra le ultime novità in fatto di intingoli e cibi precotti di mezzo mondo.
Gerbini non è un negozio – è le Nazioni Unite del sapore. È la prova vivente che un altro mondo è possibile. Solo in questo luogo ho visto pane azimut abbracciare ceci palestinesi, sughi indiani non scostarsi dal vicino sugo pakistano, tapioca e manioca del terzo mondo stare in prima fila, sopra confezioni oversize di cibi frakenstein made in USA.
È un giorno di metà novembre. C’è vento e pioggia, come al solito. Viene da chiedersi se la Bora prenda tangenti dai fabbricatori di ombrelli per quanti ne vengono distrutti in un solo giorno a Trieste. Il vento ha la straordinaria capacità di mutare la mia malinconia in irritazione. Mi stringo il collo del capotto e affretto il passo.
Il cordiale buon giorno di Paola alla cassa e il profumo del reparto dolciumi all’ingresso non alleviano la tensione delle spalle. Mi reco al banco della frutta secca. Dicono che gli agrumi diffondano radicali liberi nell’aria – forse mi serve una boccata di vitamina C. Vago tra gli spaghettini cinesi e le foglie di vite greca in cerca di conforto. Nemmeno le bottiglie di conserve al lime preparate dalla diaspora indostana che sta ormai colonizzando la Gran Bretagna, riescono a offrirmi una briciola di sollievo. Per la prima volta in quindici anni mi viene il dubbio di soffrire d’assuefazione. O forse è semplicemente la consapevolezza che Gerbini non può risolvermi questo particolare problema?
Mio marito è un uomo paziente, mangia di tutto senza fare storie: un giorno tailandese un giorno messicano, un giorno indiano. Il suo palato istriano fa il giro del mondo con me in silenzio assenso, ma ogni tanto vedo riflesso nei suoi occhi dolci e azzurri come le acque del porticciolo di Barcola, la supplica per un piatto di calandraca “come faceva la sua mamma”.
Gli ingranaggi del nostro nucleo indo-triestino sono bel oleati, ma sono consapevole che la calandraca è uno dei dentini che fa ancora inceppare la nostra macchina familiare. Purtroppo mia suocera è passata a miglior vita e perciò non ho avuto modo di chiederle il segreto della sua mitica calandraca. Ho provato in tutti i modi a prepararla, consultando fior di macellai e comperando pezzi di capel di prete, pollo, maiale e muscolo da novanta, seguendo il consiglio di amiche di aggiungerci mezzo cucchiaino di Ariosto, chiedendo a conoscenti che tipo di patate usare e lottando con il q.b. dei ricettari.
“Ma non ti ricordi se ci aggiungeva qualcosa di particolare tua madre?” chiedo mentre le sue papille gustative danno un voto ai miei svariati tentativi di stufato di carne e patate alla triestina. “Forse ci metteva pomodoro fresco invece del concentrato?”
Lui scuote la testa e per non ferirmi aggiunge che il piatto non è male, gli manca solo “quel tocco in più”. A volte mi viene da pensare che sia solo il sapore della nostalgia.
“Dove trovo i prodotti triestini?” domando al ragazzo dietro al bancone dei formaggi.
Mi manda all’entrata dove vedo solo presnitz e putizze Ulcigrai nelle loro vesti color primavera e pallidi sacchetti di fave che cercano di difendersi alla meglio dalle robuste spalle dei biscotti scozzesi in kilt rosso e nero a sinistra e dalla spinta di gigantesche conchiglie di cioccolata belga a destra.
Faccio inversione di marcia per recarmi nuovamente al reparto latticini e riformulare la mia domanda, quando mi imbatto nella figura statuaria del Signor Gerbini che sta sistemando i dadi vegetali in alto su uno scaffale stretto.
Con i suoi sessanta e passa anni d’esperienza nel settore, il Signor Gerbini è una fucina di informazioni. Una domanda tipo: “Dove posso trovare dell’aceto di riso?” non viene liquidata con dito indice puntato in qualche direzione cardinale. Prima ti indica la collocazione esatta del prodotto: “sullo scaffale più basso nella nicchia dei superalcolici, tra la grappa di bambù e l’anice. Terza bottiglia a destra”. Poi, mentre ti accucci ad accertare che sia il prodotto giusto, si avvicina e ti consiglia sulle varie marche.
“Cosa ci deve fare?”
“Il teriyaki.”
“Allora quella che ha in mano va bene. Per il sushi è meglio l’altro. Com’è venuto il korma che ha comperato la settimana scorsa?”
Non solo si ricorda con precisione matematica la collocazione delle merci nel suo negozio, si rammenta perfettamente i gusti dei suoi clienti e cosa abbiano acquistato recentemente.
Mi sento di potergli confessare il mio dilemma: la ricerca dell’ingrediente segreto per preparare la calandraca di una volta.
Gerbini aggiusta con precisione maniacale le scatole di manzo irlandese mentre parlo e si allontana tuonando: “Paolo! Paolo! Dove xe andà Paolo?”
Cerco di seppellire la mia delusione alla sua mancanza d’interesse per il mio dramma coniugale nascondendo la testa nel banco dei surgelati. Nemmeno una confezione sfiziosa di “Verdure con spezie del Kashmir” riesce a distrarmi a sufficienza.
Giro e rigiro la confezione con mano e cervello anestetizzati e solo il prezzo delle povere carote e i due piselli nani nella foto mi fanno tornare al mondo con un piccolo sussulto.
Mentre la scatola di cartone mi cade tra le mani, sento avvicinarsi il caratteristico fruscio delle suole di cuoio contro il pavimento di piastrelle grigie.
“Signora?”
Non mi giro. Tanto non sta parlando con me. Si è dimenticato della mia richiesta. Succede. Non gli si può fare una colpa, il Signor Gerbini ha una certa età ormai.
“Signora?” mi batte sulla spalla.
“Ecco, mi scusi se ci ho messo tanto, ma è appena arrivato e allora ho dovuto mandare Paolo in magazzino ad aprire lo scatolone”.
Mi porge una bustina trasparente. “Provi con questo”. Esamino il contenuto del sacchettino di plastica. Aromi misti e paprika dolce ungherese, annunciano le maiuscole gialle.
“Usi giusto una punta di cucchiaino. E non metta il dado. Poi mi faccia sapere”.
Ho tanti compiti da correggere, ma vorrei correre dal Signor Gerbini a gettargli le braccia intorno al collo.
Ha funzionato! Con le lacrime agli occhi mio marito ha ammesso che la mia calandraca non ha superato, ma si è avvicinata in modo sorprendente a quella della mamma. Nella pausa tra una lezione e l’altra mi reco al bar per un caffè e per dare un’occhiata al Piccolo. Il mio esofago si stringe a tal punto alla terza pagina da causare un reflusso del liquido bollente.
“Il negozio Gerbini sta per chiudere,” annuncia l’articolo.
Chiudere? Come chiudere? Passo il resto della giornata in uno stato di agitazione. Cosa farò se chiude Gerbini? Il mio primo pensiero non va al curcuma, ai semi di senape indiana e alle cialde di ceci che non troverò più, ma a dove troverò quella speciale marca di aromi misti e paprika dolce ungherese che ha dato un’impennata al mio rapporto coniugale?
Termino l’ultima lezione del giorno con dieci minuti di anticipo, mi infagotto e a passi lunghi percorro tutta Via Battisti.
Sono quasi le sette e mezza e fa un freddo cane.
Il negozio sta per chiudere per sempre, ci sarà forse una folla di gente ad accaparrarsi la merce che non troverà più. Altri verranno per approfittare dei forti sconti dell’ultimo minuto. Mi metto quasi a correre.
“Ma siete già chiusi?” domando alla vista del negozio quasi deserto.
“No signora. Ha ancora dieci minuti,” risponde la cassiera con un nodo alla gola.
Vado a zigzag tra le corsie finché raggiungo lo scaffale delle spezie. Cerco le bustine trasparenti con la scritta gialla, ma non ce ne sono più. Mi do un cazzotto mentale. Ma perché ho aspettato tanto? Perché non sono venuta subito il giorno dopo ad acquistare cinquanta pacchetti della mitica miscela di spezie? Mi guardo intorno, cercando di fare mente locale di qualcos’altro che mi possa servire nel medio-lungo termine, ma la delusione annebbia i miei riflessi. Con passo lento mi reco all’uscita, passando davanti al banco di frutta secca. Ecco, delle scaglie di mandorle. Quelle saranno difficili da trovare in futuro. Ne chiedo mezzo chilo. Sono alla cassa quando sbuca il Signor Gerbini. Non riesco a trattenermi.
“Sa che aveva ragione! Quegli aromi misti con paprika ungherese erano l’ingrediente segreto della calandraca di mia suocera,” annuncio. Gerbini non sorride con la bocca, sono i suoi occhi a comunicare uno stato di felicità.
“Aspetti un attimo,” si allontana strisciando veloce i piedi. Ritorna un minuto dopo con un sacchetto di carta in mano.
“Gliel’avevo messo da parte”.
Non ho abbastanza confidenza da abbracciare questo anziano signore, ma lo faccio con il pensiero. Credo che lo recepisca perché dopo che mi sono infilata il sacchetto delle spezie in tasca mi stringe la mano nelle sue che sono calde e soffici.
Sono le 19:29. Aspetto sul marciapiede.
La Bora che sta curiosando nelle mie narici, cerca di insinuarsi nei polsini del mio cappotto. Alzo il collo di eco-pelliccia e mi metto sugli attenti. Un minuto dopo le luci si spengono.
Cala il sipario, una serranda raggrinzita, color cenere scende su una pagina di storia, fagocitando il mondo. Ma perché non c’è un sit-in sul marciapiede? Ma perché non sono intervenuti quelli dei Beni culturali? Cosa verrà ad occupare questo spazio ora? Un’altra banca asettica o l’ennesimo emporio di paccottiglia?
Grido la mia frustrazione al vento che la porta via, verso il mare, incurante. Poi, improvvisamente si ferma, gira, torna indietro e mi sussurra la risposta. Nessuno può intervenire perché questo negozio non è un’istituzione, è molto di più, è l’essenza di un uomo. Le mie palpebre sparano una salva di dieci colpi mentre le mie ciglia lottano per difendere le lenti a contatto dal vortice di polvere alzata dalla Bora. Inchino la testa in un ultimo namastè e mi allontano con lo sguardo basso. Infilo le mani nel cappotto alla ricerca di un fazzolettino per soffiarmi il naso e le mie dita ghiacciate entrano in contatto con la plastica fredda. Il mio passo funebre improvvisamente si tramuta in un giro di danza.
Il negozio di Gerbini non c’è più, ma io ho in mano la ricetta per la felicità.
LA CALANDRACA
Ingredienti
(per 4-6 persone)
1 kg. di carne mista tipo capel di prete, muscolo, carne di pollo/maiale/vitello
½ kg. di patate
2 cipolle
sale olio d’oliva
½ cucchiaino di spezie miste (con paprika ungherese!)
una punta di rosmarino e salvia
½ tubetto di concentrato di pomodoro
Preparazione
Soffriggere la cipolla. Aggiungere la carne tagliata a pezzetti e rosolare bene. Aggiungere gli aromi e il sale. Allungare il concentrato con un po’ di acqua calda e bagnare la carne. Coprire e cucinare a fuoco lento per 2 ore.
Tagliare le patate a quadretti e aggiungerle alla carne. Aggiustare sale e acqua e cucinare ancora per circa 15-20 minuti.
Lily-Amber Laila Wadia è nata a Bombay. Traduttrice-interprete, libera professionista, vive a Trieste dove collabora come esperta linguistica con l’Università.
Assolutamente meraviglioso e veritiero questo racconto tra boira e spezie che racconta di un negozio di alimentari a cui tutti eravamo affezionatissimi e che ci manca moltissimo!