il museo ferroviario di campo marzio

ph_andreaperotti
E’ una domenica mattina e sono per strada sotto una bora intensa che fa ghiacciare le gocce d’acqua di una pioggia altrimenti primaverile. Sono in coda assieme ad una cinquantina di altri temerari perchè mia moglie ha avuto l’audace  (come sempre) idea di portarmi a visitare il museo ferroviario di Campo Marzio a Trieste, oggi gratuitamente visitabile grazie al FAI e alle sue “giornate di primavera”. Ogni tanto sbuca fuori dalla porta principale una signorina che inflessibilmente e con fare deciso ci rimette ordinatamente in coda “all’inglese!”, come dice lei. Unica consolazione, il sorriso di simpatia (nel senso di sofferenza comune) che si coglie nei suoi occhi, di un colore glaciale come la bora che mi arriva addosso. Dopo mezz’ora siamo dentro. Nell’atrio di questa vecchia stazione ormai abbandonata da decenni Paola, l’amica di mia moglie attivista del FAI, ci affida a due ragazzi, Giovanni e Silvia, apprendisti ciceroni del liceo Dante, al secondo e terzo anno rispettivamente. Giovanni è molto ferrato, Silvia molto simpatica, entrambi ci conducono in questo viaggio nel tempo. L’atrio della stazione è affollato di visitatori che suddivisi in gruppi seguono i loro ciceroni: sembra di essere veramente in una stazione ancora funzionante. Immediatamente mi ritrovo bambino, quando con mia mamma e i miei fratelli prendevo spesso il treno per andare a trovare i parenti, lontani anche quattro o cinque ore di “strada ferrata”. Una sedia della sala d’aspetto di seconda classe, di legno massiccio e duraturo, mi fa rivivere le sensazioni di quei viaggi, dove i treni avevan spesso le carrozze “centoporte” (si saliva praticamente in qualsiasi punto della carrozza, perchè appunto c’erano 20 porte per lato) e ci si sedeva su panche di legno costruite prima delle guerra. Entriamo nella sala dedicata alla trazione elettrica e subito si capisce come la Tecnologia abbia cambiato la vita degli uomini. Come non sia stato necessario attendere i computer per spingere un treno a oltre 150 km all’ora, per governare, con manopoline lucide simili a quelle che si usavano nei modellini dei trenini Lima, complesse stazioni ferroviarie dove si incrociavano treni che collegavano paesi sperduti nel Carso triestino con Vienna o con Praga o – perchè no – volendo con Pechino. Mi viene in mente il rumore inconfondibile del treno che di notte passava non lontano da casa e di cui mio zio mi aveva insegnato a riconoscere l’identità: il ritmo regolare per i treni merci, il ritmo sincopato per il diretto che portava i viaggiatori fino a Vienna la mattina dopo.

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La visita scorre in un crescendo di immagini vintage, con le sale d’aspetto di prima (l’unica con la stufa), seconda e terza classe che ospitano quadri comando degli scambi di stazioni come Pontebba, un tempo importantissimo scalo ferroviario con oltre 12 binari, pieni di lucette, tasti, manopole e telefoni a ghiera rotante oppure con bacheche contenenti una vasta collezione di cappelli e palette da capostazione e orologi da taschino precisissimi che spaccavano il secondo, perchè – e questa è una chicca interessante – solo grazie ai treni e ai loro orari si riuscì a uniformare su tutto il territorio dello stato l’ora ufficiale, precisa al minuto secondo. In una sala a parte, il parente povero del treno, il tram con tutte le sue curiosità come ad esempio i cartelli delle diverse linee colorati per consentire la mobilità anche a chi non sapeva leggere numeri e parole. Giovanni continua a snocciolare date, luoghi e tracciati ferroviari dell’Imperial Regio governo, Silvia racconta le curiosità, come ad esempio l’origine del nome del pub ricavato in una delle sale esterne alla stazione: Tender, dal nome del carrello che serviva a trasportare il carbone nelle macchine a vapore.

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Siamo ormai alla fine della visita ma i nostri due giovani accompagnatori non vogliono lasciarci senza fare un giro tra i binari esterni, dove stazionano (è proprio il caso di dirlo) locomotive a vapore e elettriche di tutti i tipi che un tempo hanno solcato i binari di tutte le nazioni dell’Impero e ora sono a riposo, accolte e custodite  dai volontari del  Dopolavoro Ferroviario che gestiscono il museo. La bora e la pioggia ghiacciata mi sferzano il viso. In lontananza vedo il muso di una “littorina” (una carrozza ferroviaria con motore a diesel, progettata nel ventennio e rimasta in uso fino agli anni settanta). “Il treno non aspetta” diceva mio nonno ferroviere, la littorina sembra voler dire strizzando l’occhio: tornate a trovarci, noi da qui non ci muoviamo più.

Il museo ferroviario è in via Giulio Cesare 1 ed è aperto il mercoledì, sabato e domenica dalle 9 alle 13. Giovanni

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